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Incontro del gruppo di lettura: "I soli delle indipendenze" di Ahmadou Kourouma

Domenica 19 aprile, dalle  11.00 alle 12.30 il gruppo di lettura della Libreria GRIOT continua il suo percorso attraverso i grandi libri della letteratura africana. Dopo Il crollo del nigeriano Chinua Achebe, Il bevitore di vino di palma di Amos Tutuola, e Il Vaglia di Sembène Ousmane, il gruppo legge I soli delle indipendenze, dello scrittore ivoriano Ahmadou Kourouma.


Il gruppo di lettura è aperto; non è necessario aver partecipato agli incontri precedenti. Coordina Maria Teresa Carbone.





I soli delle indipendenze: Questo primo romanzo di Ahmadou Kourouma narra la decadenza del principe malinke Fama Dumbuya, “nato nell’oro, il cibo, l’onore e le donne” e ridotto a vivere di espedienti, sullo sfondo di una Costa d’Avorio che ha da poco conquistato l’indipendenza dalla Francia.

Il titolo allude proprio a quei regimi nati dalle lotte per l’indipendenza, che per la loro assoluta e comune negatività sembrano a Fama meritevoli soltanto di un generico plurale. Regimi dai confini aleatori tracciati dai colonizzatori, frontiere intollerabili da sopportare per chi sente di appartenere a una cultura antica, radicata in ben più ampi territori.

Il romanzo narra le peripezie di Fama, ridotto a “lavorare” chiedendo l’elemosina in occasione di funerali e matrimoni insieme ai griot. Nel narrare i viaggi tra un Africa tradizionale e senza confini e quella delle metropoli convulse e alienanti sorte dal nulla, Fama racconta la sua storia con una lingua che ricorre sistematicamente alla metafora e che si presta a illustrare l’immaginario tradizionale del protagonista.
Nella virulenta descrizione di Kourouma, viene messa alla berlina sia la borghesia arrivista e ingorda, che ha preso in mano il destino del paese, sia i capi tradizionali corrotti e servili. Questo romanzo divenne un modello per generazioni di lettori e di scrittori africani e rivelò subito un autore eccezionale, una voce sarcastica e amara, ma anche traboccante di vitalità.

L’autore: Ahmadou Kourouma (Costa d’Avorio, 1927-2003), è considerato uno dei massimi esponenti del romanzo africano in lingua francese. Le Edizioni E/O hanno pubblicato Aspettando il voto delle bestie selvagge e Allah non è mica obbligato (vincitore del premio Grinzane Cavour 2003).

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Presentazione di "Dieu n'est pas un paysan", con il leader contadino Mamadou Cissokho

Domenica 19 Aprile alle 17.30, in occasione dell’uscita in Francia del libro “Dieu n’est pas un paysan”, ed. le Grad e Présence Africaine, il leader contadino Mamadou Cissokho, presidente onorario del ROPPA (Réseau des Organisations Paysannes et de Producteurs d’Afrique), incontra il pubblico di GRIOT e racconta le sue battaglie per un’agricoltura sostenibile e i diritti dei contadini in Africa occidentale.
Chi nutrirà l’Africa Occidentale? A questa domanda il libro di Mamadou Cissokho risponde in modo diretto: i “nostri appezzamenti familiari”. Da più di 30 anni, Cissokho milita perchè i contadini, spesso ancora analfabeti e per questo disprezzati, si uniscano e comincino a contare sulle proprie forze.

“Ricca di risorse e ricca in famiglie, scrive Cissokho, l’Africa occidentale è ormai ricca della crescente vitalità delle organizzazioni contadine”. Unendo allevatori, pescatori, e agricoltori, le piattaforme nazionali sono sorte alla fine degli anni 90. Al di là delle frontiere ereditate dalla colonizzazioni, prendiamo coscenza della nostra appartenenza a una comunità, la comunità degli stati dell’Africa Occidentale (la CEDEAO). E quest’ultima è ogni giorno più animata da gruppi di attori della società civile. Tra queste la Rete delle Organizzazioni contadine e dei produttori – Réseau des Organisations Paysannes et de Producteurs (ROPPA) che noi contadini di 10 paesi (Bénin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea, Guinea-Bissau, Guinea Conakry, Mali, Niger, Sénégal e Togo) abbiamo fondato nel 2000, a Cotonou e poi esteso al Ghana e alla Sierra Leone. » Questo libro racconta in modo personale e accattivante la storia di questa costruzione.

Mamadou Cissokho ha abbandonato il mestiere di insegnante per dedicarsi alla terra in un appezzamento familiare che ha creato a Bamba Thialène (a 400 km da Dakar) in Senegal. Accolto dai contadini del villaggio, Cissokho è diventato da allora l’ape operaia del movimento dei contadini dell’Africa occidentale. Nel maggio 2008, i suoi omologhi d’Africa del Sud, dell’Est e Centrale, gli hanno affidato il compito di creare le fondamenta della Piattaforma Panafricana dei Contadini e dei Produttori Africani.

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Qui va nourrir l’Afrique de l’Ouest ? A cette question d’actualité, Mamadou Cissokho, vous répondra sans détour : « nos exploitations familiales ». Depuis plus de 30 ans, il agit pour que les paysans – si souvent encore analphabètes et méprisés de ce seul fait – s’unissent et comptent sur leurs propres forces.

« Riche de ressources et riche de nos familles, écrit-il, l’Afrique de l’Ouest est désormais riche de la vitalité croissante des organisations paysannes. Unissant les éleveurs, les pêcheurs, les agriculteurs, les plateformes nationales se sont mises en place depuis la fin des années 1990. Au delà des frontières héritées de la colonisation, nous prenons conscience de notre appartenance à une communauté, la Communauté des États de l’Afrique de l’Ouest, la CEDEAO. Et celle-ci est, chaque jour, plus animée par des groupes d’acteurs de la société civile. Parmi ceux-ci, le Réseau des Organisations Paysannes et de Producteurs (ROPPA) que nous, paysans de 10 pays (Bénin, Burkina Faso, Côte d’Ivoire, Guinée, Guinée-Bissau, Guinée Conakry, Mali, Niger, Sénégal et Togo) avons fondé, en 2000, à Cotonou puis étendu au Ghana et à la Sierra Leone. » Ce livre raconte d’une façon personnelle et captivante l’histoire de cette construction.

Mamadou Cissokho a choisi, en 1974, de laisser sa craie de jeune instituteur pour devenir paysan au sein d’une exploitation familiale qu’il crée à Bamba Thialène (à 400 km de Dakar) au Sénégal. Dans ce village des paysans l’accueillent et lui font confiance. Depuis lors, il est la cheville ouvrière du mouvement paysan en Afrique de l’Ouest. En Mai 2008, ses pairs d’Afrique du Sud, de l’Est et du Centre lui ont confié le soin de créer la fondation de la Plateforme Panafricaine des Paysans et des Producteurs d’Afrique.

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"Asmara Dream” fotografie di Marco Barbon, testi di Cristina Ali Farah, Edizioni Postcart in coedizione con Filigranes.

Domenica 19 Aprile alle 19.30: Intervengono: insieme agli autori Marco Barbon (fotografo) e Cristina Ali Farah (scrittrice italo-somala), il sociologo eritreo Habte Weldemariam e l’editore Claudio Corrivetti

Questo libro è nato dal desiderio di evocare, attraverso immagini di dettagli urbani, interni e qualche ritratto, l’atmosfera caratteristica di Asmara, la capitale dell’Eritrea. Realizzato tra il 2006 e il 2008 con una macchina Polaroid SRL 690, il mio lavoro insiste sull’idea di una sospensione del tempo e della storia, tra un passato coloniale che ha lasciato delle tracce profonde sul volto della città e un presente che pare immobilizzato in un’attesa senza fine.
Mi sono chiesto più volte, durante i miei diversi soggiorni ad Asmara, a che cosa somigliasse la sensazione che provavo stando lì. Finalmente mi sono accorto che la sensazione era simile a quella di chi sta sognando. Il sogno è, in un certo senso, un’interruzione, una breccia aperta nel tessuto del tempo. Nel sogno tutto sembra avere un altro ritmo, un altro corso; le cose e le persone appaiono più aeree, più sottili, più astratte, come sospese in un limbo al di fuori del tempo. La stessa impressione coglie ad ogni passo chi visita questa città: il bancone di un caffè, la facciata di un edificio, un uomo che legge il giornale, un lampadario, l’insegna di un negozio… di fronte a tutto ciò viene da chiedersi in quale epoca ci troviamo, se siamo nel presente o in qualche luogo recondito della memoria. Ma dicevo del sogno. Asmara vive, per così dire, un triplice sogno. Innanzitutto il sogno dei coloni italiani che giunsero qui alla fine dell’Ottocento con l’intenzione di costruire, in Africa, una seconda Roma. Poi il sogno dell’indipendenza dall’Etiopia: un sogno diventato realtà nel 1991, dopo anni di coraggiosi combattimenti e innumerevoli sacrifici umani. Infine il sogno di chi, nella difficile situazione attuale, vuole fuggire a tutti i costi da questo paese, immaginandosi un futuro migliore oltre la frontiera.
Questi tre sogni, intrecciandosi, hanno tessuto e continuano a tessere il destino di questa città, ne hanno nutrito e continuano a nutrirne l’anima. Eppure il tempo passa e consuma. Le straordinarie architetture razionaliste, vestigia di un’epoca d’oro, invecchiano irrimediabilmente, le tracce del passato scoloriscono sotto il sole impietoso dell’altopiano; persino il sogno dell’indipendenza sembra perdere progressivamente consistenza…Che cosa resterà, allora, del sogno di Asmara?

Marco Barbon Nato a Roma nel 1972, vive e lavora a Parigi. Dopo una laurea in Filosofia all’università La Sapienza di Roma e un dottorato in Estetica della Fotografia all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, ha lavorato per quattro anni come fotoeditor per l’agenzia fotografica Magnum Photos. Attualmente si dedica a tempo pieno ai propri progetti fotografici, editoriali e didattici. Le sue foto sono state esposte in Italia e in Francia e pubblicate su alcune importanti riviste internazionali. Asmara Dream è il suo primo libro.

Ubah Cristina Ali Farah è nata a Verona nel 1973 da padre somalo e madre italiana. È vissuta a Mogadiscio (Somalia) dal 1976 al 1991. Collabora con la Cronaca di Roma di Repubblica e con Internazionale. In Italia suoi racconti e poesie sono stati pubblicati in diverse antologie. Nella primavera 2007 è uscito Madre piccola, il suo primo romanzo, edito da Frassinelli (Premio Vittorini 2008).


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Gli Hope Raisers: La musica per raccontare la vita in uno slum di Nairobi

Giovedì 2 Aprile alle ore 20,00 Daniel Onyango e Isaiah Kimani, due componenti degli Hope Raisers, saranno da GRIOT per presentare il documentario Akiongea_He’s talking e raccontare la loro esperienza.
Gli Hope Raisers sono un gruppo musicale nato nel 2005, sono ragazzi di Korogocho*, uno dei più grandi slums di Nairobi, che hanno scelto la musica come mezzo di denuncia, sensibilizzazione e conoscenza della vita in una baraccopoli. Le loro canzoni parlano dei diritti sociali, politici ed economici delle persone che vivono emarginate a causa della povertà, delle ingiuste relazioni economiche internazionali, della condizione giovanile.
La serata, organizzata dall’Ong IPSIA, che lavora a Nairobi per i diritti dei lavoratori, si concluderà con un aperitivo equo e solidale, il cui ricavato contribuirà a sostenere i campi di volontariato estivi promossi dalla stessa associazione.
Nella stessa sede sarà inoltre allestita una mostra fotografica curata dai volontari di IPSIA che l’estate scorsa hanno partecipato al campo di volontariato in Kenya.
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*Korogocho è uno dei più grandi slum di Nairobi, una delle numerose baraccopoli che è sorta ai bordi della grande capitale del Kenya in seguito all’enorme e disorganica crescita urbana degli ultimi decenni. E’ uno di quei luoghi in cui si vive in condizioni abitative precarie ( case di fango o lamiera), senza strutture sanitarie adeguate e scarse condizioni igieniche; è uno di quei luoghi-discarica in cui si è costretti a convivere non solo con i propri rifiuti, che le autorità locali non raccolgono più, ma anche con quelli della ricca Nairobi; un luogo in cui si sopravvive di lavoro informale, unica possibilità di mangiare e pagare l’affitto della propria casa in lamiera.
Questo e molto altro è Korogocho….
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Per informazioni sulle attività dell’associazione è possibile consultare i siti:
www.ipsia.acli.it
www.terreliberta.org

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ROMA SUNU SENEGAL – Roma il nostro Senegal: il Residence Roma di via di Bravetta si racconta

Venerdi 3 Aprile, da GRIOT si percorre il viaggio dall’esperienza del ghetto a quella dell’interculturalità: un percorso umano e politico della comunità senegalese a Bravetta e a Monteverde, insieme ai protagonisti dell’esperienza nata nel XVI Municipio.
L’incontro prenderà spunto dalla Proiezione di fotografie realizzate da Roberto Cavallini lungo un arco temporale che va dal 2006 al 2009, dove si descrive un percorso di riscatto umano ed artistico di alcuni senegalesi che per la loro storia di migranti si sono incontrati in un momento della loro vita al Residence Roma in via di Bravetta ed hanno proseguito il loro progetto migratorio diventando ambasciatori della cultura africana a Roma, nel resto d’Italia.
Interverranno: Badarà Seck (griot – Residence), Ousmane Ndiaje (mediatore culturale e Presidente della Consulta dei Migranti del Municipio XVI – Residence), Cire Gaye (Volontario Associazione Roma XVI con l’Africa – Residence), Vito Conteduca (vice preside del Liceo Montale – Bravetta), Fabrizio Fantera (professore del Liceo Morgagni – Monteverde), Annalisa Giannetti (presidente dell’associazione Roma XVI con l’Africa), Roberto Cavallini (fotografo – Monteverde).
Ospiti della serata: Fabio Bellini (presidente XVI Municipio), Paolo Masini (consigliere comunale di Roma PD)

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In riva al Joliba di Abdourahman A. Waberi

Internazionale 782 – 13 febbraio 2009
C’è una favola dei bambara del Mali che descrive perfettamente la situazione attuale del mondo. Si chiama Donni dongama (La piccola danza indanzabile). È una favola crudele, che a un certo punto dice: “Se il ballerino fa un passo indietro, muore suo padre. Se ne fa uno avanti, muore sua madre. Se non balla, muore”. Per capire come stanno le cose, forse bisognerebbe prestare ascolto alla saggezza dei poveri, all’esperienza dei più vulnerabili.
Nel marzo del 1991 a Bamako e in tutto il Mali è caduto un muro. La popolazione ha messo fine alla dittatura militare di Moussa Traoré. Decine di cittadini hanno pagato con la vita il processo di apertura politica. Qualcosa è cambiato in quelle settimane di rivolta e furore, un po’ come quando una nave durante la notte gira intorno all’ancora e il giorno dopo si ritrova con la prua puntata al largo.
Rieccoci a Bamako. Una città comincia così, nel ricordo di un racconto o di un sogno, molto prima di trovarsi con la cartina sotto il naso. Discreta e indolente, Bamako si stende da una parte e dall’altra del fiume: Niger, lo chiamano gli stranieri; Joliba, gli abitanti del posto. La città non fa brillare sotto i riflettori i suoi figli più prestigiosi – Seydou Keita, Malick Sidibé, Souleymane Cissé, Salif Keita, Amadou & Mariam e altri hanno conosciuto il successo all’estero – né le sue attività culturali, come il mese della fotografia, il festival Théâtre de réalités di Adama Traoré, gli spettacoli di danza di Kettly Noël o le mostre del museo nazionale diretto dal dinamico Samuel Sidibé.
Gli abitanti di Bamako non amano vantarsi. Sono rimasti umili e placidi come le acque del Joliba. Lasciano la parola a Dakar, dove proliferano forum, convegni e conferenze internazionali, come perle al collo di una bella donna del Sahel.
A novembre si è svolta la diciannovesima edizione del festival Etonnants voyageurs. Gli scrittori invitati hanno incontrato gli studenti, che aspettavano l’evento come i contadini aspettano la pioggia. Il gusto della lettura, una merce così rara in Africa, ha regnato durante tutto il festival. C’è chi ha fatto domande sui rischi e sulle soddisfazioni del duro mestiere di scrivere. In un paese come il Mali, dove un’edizione economica costa l’equivalente di dieci giorni di stipendio, ci vuole fortuna per riuscire ad appagare la propria sete di sapere, di sognare, di raccontare.
Spesso lo scrittore africano sembra un miracolato, un fantasma di cui tutti hanno sentito parlare ma che nessuno ha mai letto. Ha la sensazione di scrivere invano, di essere un écrit vain (scritto inutile), come diceva William Sassine, l’autore guineano ucciso dall’alcol e dalla disperazione nel 1997.
William Sassine è morto troppo presto. Non ha conosciuto la febbre della lettura che ha assalito i giovani maliani riuniti nel palazzo della cultura Amadou Hampaté Bâ per assistere all’omaggio ad Aimé Césaire. Non li ha visti fare domande granitiche e collezionare autografi. Liceali in jeans extralarge e adolescenti filiformi che sfoggiano sorrisi disarmanti e finte borse di Dolce e Gabbana.
Come tutte le metropoli africane, Bamako è un calderone di lingue e di culture. Ogni abitante, indipendentemente dalla sua origine o dalla classe sociale, appena apre bocca non può che abbracciare la lingua di Babele. Salif Keita lo ha detto tante volte nelle sue canzoni.
Keita è il musicista dalla voce di seta più apprezzato in Mali dopo Ali Farka Touré, morto nel 2006. Di origine aristocratica, Salif si è dovuto scontrare con la famiglia per poter condividere l’arte del canto con la casta dei griot. Oggi si batte a sostegno degli albini, vittime dell’emarginazione sociale. Lui stesso è albino e non ha dimenticato le umiliazioni, il ripudio del padre, la solitudine e le offese subite fin dall’infanzia per colpa del suo colore.
La vita di quest’uomo è simile a quella del continente africano, maledetto e benedetto insieme. Per ogni disgrazia c’è una provvidenza. Si parte, si torna, si lavora e si vive qui e là. Mendicante tra i Keita, nobili mandinghi. Nobile tra i mendicanti.
“Nato e cresciuto in Mali”, raccontava il cantante sul quotidiano francese Libération nel 2006, “ho visitato la Francia per la prima volta nel 1974. Mi sono sentito spaesato di fronte alla modernità, ai bei viali, all’organizzazione. Poi mi ci sono trasferito nel 1983 per lavorare come musicista. Sono tornato in Mali negli anni novanta, quando nel mio paese è tornata la democrazia. In Francia ho scoperto la musica ‘industriale’, la produzione di massa. In Africa, invece, la musica non è considerata un lavoro. Anche le relazioni familiari sono molto diverse. In Francia un ragazzo a diciott’anni è maggiorenne. Desidera la sua indipendenza, vuole allontanarsi dai genitori. In Mali si rimane figli finché i genitori sono vivi. La famiglia è un enorme baobab, che offre i suoi frutti e la sua ombra, un riparo piacevole. Una famiglia che fiorisce è il simbolo dell’amore”.
Si è detto tante volte durante il festival di Bamako: il Mali e l’Africa intera si salveranno grazie alla cultura. Non a caso nel paese di Oumou Sangaré, Rokia Traoré e dei Tinariwen, la musica porta già più ricchezza del cotone! 
 
Traduzione di Jamila Mascat
 
Abdourahman A. Waberi, nato a Gibuti nel 1965, è scrittore, saggista, poeta e drammaturgo. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Gli Stati Uniti d’Africa (Morellini 2007). Ha scritto questo articolo per Internazionale.

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Scomodi meticci di Louis-Philippe Dalembert

Internazionale 744 – 16 maggio 2008
Una ventina d’anni fa mi trovavo a Jacmel, una piccola città turistica nel sudovest di Haiti. Ero insieme a un belga e a un attore guineano, venuto a girare un film, quando si è avvicinato un venditore ambulante di oggetti d’artigianato. Prima ha provato a vendere qualcosa a me, senza successo. Il belga se l’è cavata con qualche parola di creolo maccheronico.
Poi è arrivato il turno del guineano. Sfoggiava una larga tunica immacolata che contrastava con la sua carnagione di nègre bleu, come i creoli chiamano i neri dalla pelle scurissima. Era appena sbarcato ad Haiti e non conosceva una parola di creolo. Non aveva altra scelta che chiederci aiuto. A quel punto il venditore ambulante ha sgranato gli occhi, esclamando: “Ma questo negro è un bianco!”.
Potrebbe sembrare un giudizio affrettato, come se il venditore avesse considerato il guineano un alienato, troppo vicino ai valori culturali dell’antico padrone europeo. Ma non è così. Per capire questo passaggio dal nero al bianco bisogna tener presente che in creolo haitiano la parola “negro” indica l’uomo che hai davanti e “bianco” lo straniero di qualsiasi razza. Perciò ad Haiti capita che durante una partita di calcio Italia-Germania Maldini o Ballack siano chiamati negri, proprio come un bianco benestante o apparentemente benestante è chiamato un “gran negro”. Invece a chi parte in viaggio per l’Africa subsahariana si dirà, senza nessuna ironia, “vai nel paese dei bianchi”, in altre parole “vai all’estero”.
La migrazione – e questo vale per tutte le isole caraibiche – ha sempre avuto un ruolo importante nella storia di Haiti. È uno dei pilastri su cui si basa l’identità del paese, costituito come entità culturale a partire da diaspore diverse. Per questo l’approccio identitario ad Haiti non si basa solo sul fenotipo fisico. Quando Cristoforo Colombo sbarcò sull’isola nel dicembre del 1492, questa terra si chiamava già Ayti (che in lingua arawak significa “terra di montagna”) ed era abitata dai taino, una popolazione nata da un primo incrocio tra gli arawak e i siboney.
Trent’anni dopo il 90 per cento della popolazione locale era stata decimata. I futuri haitiani sarebbero stati i discendenti delle diaspore africane ed europee, rafforzate, un secolo dopo l’indipendenza, dall’arrivo dei siriano-libanesi (per citare solo le componenti e le ondate principali dei flussi migratori all’origine della popolazione dell’isola). A tutto questo si sono aggiunte altre migrazioni dall’esterno verso l’interno, più o meno regolari, che hanno continuato a irrigare l’identità culturale degli haitiani.
È importante distinguere il meticciato culturale dal meticciato biologico. Se quest’ultimo è evidente, il primo non è certo meno forte. A volte si tende a trascurare questo aspetto, che invece determina in larga parte il modo di essere al mondo di un individuo o di una comunità. Uno sguardo esteriore, riduttivo, spesso considera Haiti una semplice appendice dell’Africa trapiantata in terra americana. Ma se da un lato l’Africa è vasta e quindi plurale, dall’altro il territorio haitiano, come abbiamo visto, raggruppa uomini e donne di origini diverse. Eppure capita che l’assimilazione di questo sguardo esteriore spinga gli haitiani stessi, e gli africani con loro, a vedere in questo paese nient’altro che un ramo trapiantato dall’Africa.
Ricordo un incontro a cui ho partecipato nel novembre del 1995, nel nord della Francia. Eravamo una decina di autori riuniti per scrivere una lettera aperta contro la condanna a morte dello scrittore nigeriano Ken Saro-Wiwa. Qualcuno ha proposto di cominciare la lettera con: “Noi scrittori africani…”. Io ho chiesto di correggere l’inizio, sostenendo che, se volevamo identificarci a partire da una connotazione geografica, sarebbe stato meglio scrivere: “Noi scrittori africani e caraibici…”.
La mia osservazione ha scatenato l’ira di un senegalese. Capivo il suo punto di vista ma non lo condividevo. Per lui era come se rifiutassi di riconoscermi nella madre Africa: peggio, come se mi tirassi fuori dalla lotta comune. In realtà questo fratello non solo negava la mia americanità, ma con la sua reazione esprimeva – probabilmente senza rendersene conto – un’immagine negativa di sé. Questa immagine è il frutto dell’interiorizzazione del discorso dell’Altro, che riunisce tutti i negri sotto un’unica etichetta negativa. Lo scrittore martinicano Frantz Fanon vedeva in questo complesso – poiché proprio di un complesso si tratta – il risultato di un doppio processo: “Economico, innanzitutto, e, in un secondo tempo, di interiorizzazione o meglio epidermizzazione di questa inferiorità”.
Il contrario è altrettanto vero. Quante volte ho sentito dire da un bianco: “Tu non sei nero”. Ma se gli chiedo: “E che sono, allora?”, non sa rispondere. Qualcuno osa timidamente dirmi: “Sei come noi”, senza arrivare al punto di chiamarmi bianco. Il giudizio “tu non sei nero”, infatti, rinvia a un’immagine del nero intrisa di pregiudizi ereditati dalla propria educazione e dalla propria cultura. Senza volerlo, questo giudizio solleva un’altra questione essenziale: quella del meticciato, culturale o biologico, che viene rifiutato, spesso in modo istintivo, dai gruppi etnici puri. 
Prendiamo per esempio il meticciato bianco-nero nei paesi occidentali. Lì i meticci spesso sono percepiti dai bianchi in funzione della loro riuscita o del loro fallimento nella società. Meticci di successo sono guardati con simpatia e sollievo, come dei sottoprodotti della civiltà bianca, occidentale, dei figli di cui tutto sommato essere fieri. L’ex giocatore di tennis Yannick Noah, di padre camerunese e madre francese, faceva notare che la stampa lo considerava francese quando vinceva e franco-camerunese quando perdeva. Insomma, tutto quello che è positivo avvicina i meticci al campo dei bianchi, mentre tutto ciò che è negativo li allontana, spingendoli nel campo dei neri.
Da parte loro i neri, abituati a fare i conti con il razzismo e a interiorizzare il discorso dell’Altro, attribuiscono spesso ai meticci – ma non sempre a ragione – un complesso di superiorità. Oppure li considerano il risultato di un’evidente alienazione, umanoidi con la pelle indecisa e la maschera bianca (per parafrasare Pelle nera maschere bianche di Fanon), degli alienati, sradicati culturalmente, abituati da troppo tempo a frequentare la scuola dei bianchi. 
A causa di questo rifiuto i meticci finiscono per identificarsi con un campo o con l’altro, per lo più con quello delle vittime e dei perdenti della storia recente. Come hanno fatto Malcolm X e Bob Marley. La rabbia da neofiti e l’intransigenza nascono dalla delusione per non essere riusciti a incarnare quel punto di equilibrio, quel ponte di collegamento che sarebbero dovuti diventare per “natura”. Com’è prevedibile, la loro risposta sarà molto più complessa e si collocherà tra questi due estremi. Nelle loro ferite segrete, ma anche nelle loro gioie. Oltre il rifiuto e l’accettazione, oltre l’idealizzazione di quello che dovrebbero simboleggiare agli occhi dell’Altro. 
Barack Obama, in lizza per la candidatura del Partito democratico alle presidenziali statunitensi, ha vissuto molto presto sulla sua pelle questa condizione di “inclassificabilità”. Fino a quarant’anni fa negli Stati Uniti sarebbe stato incluso nella categoria coloured in base al sistema dell’apartheid. A lungo è stato “afroamericano” per la stampa statunitense e “nero” per la stampa europea.
Come si deve interpretare una simile definizione rispetto a un individuo biologicamente meticcio, che fino all’università ha frequentato solo il ramo bianco della sua famiglia? Cosa lo rende più nero che bianco se lo sguardo dell’Altro, in questo caso il bianco, che ha difficoltà a riconoscersi nella sua immagine? Anche i neri statunitensi diffidavano di Obama, prima di passare dalla sua parte in assenza di un candidato più nero e “puro”.
Gli scrittori migranti, originari del sud del mondo, spesso condividono la condizione dei meticci perché vivono a lungo – a volte da sempre – lontano dalla loro terra natale. Sono sbattuti da una riva all’altra dalle stesse onde meschine, e poco importano le cause dei loro spostamenti (l’esilio, le difficoltà economiche, l’ebbrezza del vagabondaggio). Tutto questo in nome dell’autenticità: culturale, linguistica, cioè dell’immaginario. Da un lato la riva meridionale serve a escludere, dall’altro la riva settentrionale serve a lavarsi la coscienza. Ed è come se ci fosse la necessità inderogabile di collocare l’immaginario e la lingua di questi scrittori sotto una bandiera che non sia letteraria. Come se un’opera, questa parte visibile dell’interiorità, non bastasse a se stessa e soprattutto non bastasse a definire il solo luogo di cui parla il suo autore: il proprio sé. 
Da John Donne in poi questo sé non può più essere considerato un’isola. È un sé fatto di piste sottomarine collegate in modo permanente con l’infanzia, la terra che nutre ogni opera; un sé fatto di una sensibilità e di una lingua che non hanno consistenza se non sono radicate nella realtà. È come se l’essenziale non fosse l’opera stessa. Come se per gli scrittori della migrazione ogni opera potesse avere valore solo in virtù del contesto extraletterario. Tanto che alcuni arrivano a confondere l’opera con il contorno extraletterario. 
Il problema è che questo sguardo si estende all’insieme della letteratura del sud del mondo vista da nord. Negli anni si è affermata una lettura compassionevole di queste opere: una critica contraddittoria, in base a cui il loro “valore” spesso è dato solo dalla compassione che suscitano in relazione a un contesto non letterario. Compassione per la realtà, ma anche per gli autori, che l’Altro, ormai incapace di lottare, abituato a vivere in un nord troppo privilegiato, si compiace a considerare “povero” e “impegnato”. Mentre gli scrittori, migranti o meno, hanno una sola preoccupazione: tornare alla letteratura. 
 
Traduzione di Jamila Mascat
 
Louis-Philippe Dalembert è uno scrittore haitiano di lingua francese e creola. Nato a Port-au-Prince nel 1962, è autore di poesie, romanzi e racconti. In Italia ha pubblicato La matita del buon Dio non ha la gomma (Edizioni Lavoro 1997). Vive a Parigi.

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Donne di mondo: 8 marzo tra festa e riflessione

Domenica 8 Marzo, dalle 18.00 in poi: Giornata di FESTA e RIFLESSIONE sull’essere donne
L’8 Marzo di GRIOT è dedicato a una riflessione che vedrà come sottofondo poetico il volume “Passaggi a ovest. Poesia femminile anglofona della migrazione” curato dalla Prof.ssa Paola Splendore.
Le voci di questa antologia appartengono a donne nate e cresciute in paesi del mondo non occidentale da cui si sono allontanate per motivi diversi: emigrazione, ricerca di asilo politico, studio, lavoro. In gran parte inedite in italiano ma molto note nei paesi di adozione, le autrici parlano nei loro versi di un duplice spaesamento, da una terra e dalla lingua madre, rivisitando e sovrapponendo memorie, sonorità e immagini transnazionali.
Parleranno di spaesamenti, femminilità e donne (non solo migranti, ma anche italiane e cittadine del mondo) donne che non vi lasceranno indifferenti.

  • Paola Splendore, docente di Roma TRE di letteratura inglese (curatrice del volume “Passaggi ad Ovest”)
  • Lidia Riviello, poetessa (autrice di Rhum e acqua frizzante, G. Perrrone)
  • Cristina Ali Farah, scrittrice e poetessa, (autrice di Madre Piccola, Frassinelli 2007)
  • Gianna Fregonara, giornalista del Corriere della Sera
  • Angela Pascucci, giornalista del Manifesto (Talking China, Manifesto Libri 2008)
  • Igiaba Scego, scrittrice (autrice di Oltre Babilonia, Donzelli 2008)

Chiuderà la serata un omaggio a Miriam Makeba
musiche: Afreak
video: Marshiva

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Incontro del Gruppo di Lettura di GRIOT: "Il vaglia" di Sembène Ousmane

 
Sabato 21 marzo, dalle  11 alle 12.30 il gruppo di lettura della Libreria GRIOT continua il suo percorso attraverso i grandi libri della letteratura africana. Dopo Il crollo del nigeriano Chinua Achebe, e Il bevitore di vino di palma di Amos Tutuola, questa volta è il turno di uno scrittore-cineasta senegalese, Sembène Ousmane. “Il Vaglia” pubblicato in Italia da Jaca Book.
Il gruppo di lettura è aperto; non è necessario aver partecipato agli incontri precedenti.
Coordina Maria Teresa Carbone.
 

“Il Vaglia”: Una satira tagliente e spesso deliziosamente arguta della nuova borghesia africana post-indipendenza, divisa fra tradizioni patriarcali antiquate e una burocrazia negligente, rapace e inefficiente. Da questo libro Sembène Ousmane ha tratto anche un film dal titolo Mandabi (Il vaglia – Le mandat-, in francese), girato a colori in due versioni linguistiche, francese e wolof, premiato a Venezia nel 1968 con il Premio della critica internazionale. Apparso nel 1965, “Il Vaglia” è stato tradotto e pubblicato in Italia grazie a Jaca Book nel 1978.

La storia: Un uomo, Ibrahima Dieng, rispettabile padre di famiglia, riceve nel suo villaggio un vaglia da parte del fratello, partito a lavorare all’estero. Per poter incassare questo vaglia pero’, ci vuole una carta d’identità. E per avere una carta d’identità ci vuole un’estratto di nascita …. Insomma le difficoltà amministrative inevitabilmente mettono zizzannia nella famiglia, mentre il denaro, ancora non incassato, già viene speso e la situazione sfugge di mano. 

Sembène Ousmane: Padre del cinema senegalese e autore militante (1923-2007), Sembène Ousmane è stato uno dei personaggi che più hanno marcato il panorama culturale dell’Africa nel periodo immediatamente successivo all’indipendenza. Autore prolifico, fondatore nel 1969 del festival del cinema di Ouagadougou FESPACO, Sembène Ousmane nasce  nel 1923 a Ziguinchor nel sud del Senegal (Casamance); partecipa alla Seconda Guerra Mondiale nelle file dell’esercito francese. Dopo la guerra arriva a Marsiglia dove s’iscrive al partito comunista francese e inizia la sua attività di sindacalista,  milita contro la guerra in Indocina e per l’Indipendenza dell’Algeria.

All’inizio degli anni ’50 si dedica alla letteratura e nel 1956 esce il suo primo romanzo Le Docker noir (Lo scaricatore nero), un’opera autobiografica sull’esperienza dei lavoratori africani all’estero. Nei primi anni ’60 inizia ad avvicinarsi al cinema, sua antica passione, e decide di frequentare la scuola di cinema di Mosca e nel 1962 gira il suo primo cortometraggio, Borom Sarret (Il Carrettiere).

Il 1966 è un anno storico per il cinema africano: Ousmane realizza La noire de… (La Nera di…), il primo lungometraggio di finzione del regista senegalese e anche del cinema africano. Tra i suoi film: Ceddo (Il popolo, 1977), Campo Thiaroye (Campo Thiaroye, 1988) e Guelwaar (id., 1992) entrambi presentati in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, e appunto, “Il Vaglia”, premiato a Venezia nel 1968. L’ultima fatica cinematografica di Sembène Ousmane è stata Moolaadé (id. 2004), tra i pochi film africani ad essere stati distribuiti in Italia. 

Non esiste una voce italiana di Wikipedia su Sembène Ousmane. 

Link utili: 
http://fr.wikipedia.org/wiki/Ousmane_Sembène http://www.senegalaisement.com/senegal/ousmane_sembene.html

 

 

da Wikipedia Francia
Romanzi

  • 1956 : Le Docker noir
  • 1957 : Ô pays, mon beau peuple
  • 1960 : Les Bouts de bois de Dieu
  • 1962 : Voltaïque
  • 1964 : L’Harmattan
  • 1965 : Le Mandat
  • 2000 : Vehi-Ciosane, ou, Blanche-Genèse ; suivi du Mandat, Présence africaine.
  • 1973 : Xala, Présence Africaine, rééd. 1995
  • 1981 : Le Dernier de l’Empire
  • 1987 : Niiwam, suivi de Taaw (Éditions Présence africaine)
  • 2000 : Vehi-Ciosane, ou, Blanche-Genèse ; suivi du Mandat, Présence africaine, réed. 2000, ISBN 2708701703

 

Filmografia

  • 1963 : Borom Sarret, court-métrage
  • 1963 : L’Empire songhay, court-métrage documentaire
  • 1964 : Niaye
  • 1966 : La Noire de… (scénariste, réalisateur)
  • 1968 : Le Mandat (Mandabi) (scénariste, réalisateur)
  • 1970 : Taaw, court-métrage
  • 1971 : Emitaï (Dieu du tonnerre) (scénariste, réalisateur)
  • 1974 : Xala (scénariste, réalisateur)
  • 1976 : Ceddo (scénariste, réalisateur, acteur)
  • 1987 : Le Camp de Thiaroye (scénariste, réalisateur)
  • 1992 : Guelwaar
  • 2000 : Faat Kiné
  • 2003 : Moolaadé (scénariste, réalisateur)
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"Ritratto del passato": incontro con l'autore palestinese Ghassan Zaqtan insieme allo scrittore iracheno Jabbar Yassin Hussin

Sabato 28 marzo, alle ore 18.30: GRIOT presenta “Ritratto del passato”, Poiesis Editrice, dell’autore palestinese Ghassàn Zaqtàn.
Ne parlano con l’autore, le traduttrici-curatrici Lucy Ladikoff e Francesca Accarpio insieme al poeta e scrittore iracheno Jabbar Yassin Hussin.

Ritratto del Passato è un racconto che si snoda su una sequenza di ricordi, il cui oggetto è una donna tanto importante da non aver neppure bisogno di un nome: per tutto il racconto é semplicemente lei. Attorno a lei ruota tutto, tema personale e tema storico politico della Palestina, tema cultural popolare di una società araba che riflette su se stessa e sul proprio passato.
Tutto è rappresentato attraverso soliloqui introspettivi, dialoghi in cui fantasia e realtà si mischiano, emozioni del momento e nostalgia antica, solitudine individuale e dolore di un popolo abbandonato a se stesso, per il quale i ricordi degli oggetti e delle esperienze quotidiane tramandate da altri, diventano esperienza condivisa.
Il romanzo inizia con il dialogo interiore del protagonista, che è anche l’io narrante. Una riflessione per gridare la necessità del ritorno. Un ritorno a quei luoghi, a quelle espressioni di saluto, a tutto ciò che ricorda lei, deuteragonista del racconto. In questo soliloquio ad alta voce compare anche un terzo interlocutore fantastico a cui l’autore si rivolge ripetutamente nel corso del romanzo. Di primo acchito, il racconto sembra surreale, ma gradualmente ogni elemento assume una sua forma e collocazione precisa. Spesso il dialogo sembra avvenire fra tre interlocutori; in realtà il lettore avverte il colloquiare di due personaggi soltanto e si domanda se per caso il terzo si sia perduto. Attraverso un moto che a tratti sembra circolare, l’autore torna continuamente al passato per trovare il senso della presente ossessione, un continuo avanti e indietro tra passato e presente, dove c’è sempre lei. È una donna fatale, tutti coloro che l’ameranno saranno destinati alla morte: “Ti ho già raccontato, ho iniziato presto, prima del tempo, lei è la mia perdizione e lo sa, lei è quello che mi manca e sa anche questo…”.
Ghassàn Zaqtàn è nato nel 1954 a Beit Jala, un piccolo villaggio accanto a Betlemme. L’esilio lo ha portato a spostarsi in diversi luoghi: Siria, Giordania, Libano, Tunisia, lavorando come insegnante nei diversi campi profughi palestinesi di tutti questi Paesi.
Zaqtàn ha collaborato con il Movimento di Resistenza Palestinese diventando editore dal 1990 al 1994 di Al Bayàder(I campi), rivista letteraria dell’OLP. Solo nel 2004 riesce a rientrare a Ramallah in Palestina, dove tuttora vive. Oltre all’attività di scrittore egli é anche regista di documentari che descrivono le vicende attuali della Palestina. Accanto a numerose pubblicazioni e antologie, Ghassàn Zaqtàn ha pubblicato la sua prima opera narrativa nel 1995. Nel 1996 ha fondato insieme ad un gruppo di autori “La casa palestinese della poesia”; in seguito si è occupato della creazione di numerose riviste culturali e letterarie, editando la rivista trimestrale di poesie Al–Shu‘arà’ (I poeti) dal 1998 al 2003. Dal 2004 lavora al Ministero della Cultura come responsabile del settore letterario ed editoriale e dirige le pagine letterarie del quotidiano Al-Ayyàm (I giorni) a Ramallah.
Jabbar Yassin Hussin – è nato nel 1954 a Bagdad, Iraq. È il più grande scrittore iracheno vivente, in odore di premio Nobel. In esilio in Francia dal 1976, per sfuggire al regime di Saddam Hussein, è tornato a Baghdad nel maggio del 2003 dopo 27 anni. A partire dal 1984 pubblica novelle e testi di poesia su riviste francesi: Brèves, Roman, Contre Ciel, Sud, Levant, Aube… Nel 1991 pubblica “Aux rives de la Folie” (Sulle rive della follia) – l’Harmattan. Nel 1993 pubblica per la poesia “Un ciel assombri d’étoile” e  “Terre d’oubli”– Edition Parole d’Aube Kichkano–Alfil Editions, “Un cielo oscuro di stelle” e “Terra dell’oblio” entrambi tradotti Italia a cura di Lucy Ladikoff, ed. Aracne, Roma, 2006… Nel 1996 ha creato un’opera teatrale con il titolo “L’Absent” (L’assente). Ha diretto dal 1990 al 1992 gli incontri poetici franco-arabi di Poitiers e l’Incontro Internazionale della Poesia a La Rochelle nel 1993–1994. Membro del comitato di redazione della rivista Qantara, dell’Istituto del Mondo Arabo, Parigi. È membro del Comitato di redazione della rivista araba Kassas di Londra. Fa parte del comitato scientifico del Laboratorio Progetto Poiesis e dei Seminari di Marzo. Numerosi suoi scritti e poesie sono pubblicati sulla rivista da Qui. Nel 2000 esce il suo maggior romanzo “Le Lecteur de Baghdad” “Il lettore di Baghdad pubblicato in Italia dalla Poiesis Editrice, Alberobello, 2008., edizione Atelier du Gué. Nel 2002 è il libro “Histoires de Jour, contes de nuit”, Atelier du Gué, tradotto in Italia con il titolo “Storie di Giorno, racconti di notte”, ed. Argo, di Lecce. Tiene conferenze in ogni parte del mondo.