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Scomodi meticci di Louis-Philippe Dalembert

Internazionale 744 – 16 maggio 2008
Una ventina d’anni fa mi trovavo a Jacmel, una piccola città turistica nel sudovest di Haiti. Ero insieme a un belga e a un attore guineano, venuto a girare un film, quando si è avvicinato un venditore ambulante di oggetti d’artigianato. Prima ha provato a vendere qualcosa a me, senza successo. Il belga se l’è cavata con qualche parola di creolo maccheronico.
Poi è arrivato il turno del guineano. Sfoggiava una larga tunica immacolata che contrastava con la sua carnagione di nègre bleu, come i creoli chiamano i neri dalla pelle scurissima. Era appena sbarcato ad Haiti e non conosceva una parola di creolo. Non aveva altra scelta che chiederci aiuto. A quel punto il venditore ambulante ha sgranato gli occhi, esclamando: “Ma questo negro è un bianco!”.
Potrebbe sembrare un giudizio affrettato, come se il venditore avesse considerato il guineano un alienato, troppo vicino ai valori culturali dell’antico padrone europeo. Ma non è così. Per capire questo passaggio dal nero al bianco bisogna tener presente che in creolo haitiano la parola “negro” indica l’uomo che hai davanti e “bianco” lo straniero di qualsiasi razza. Perciò ad Haiti capita che durante una partita di calcio Italia-Germania Maldini o Ballack siano chiamati negri, proprio come un bianco benestante o apparentemente benestante è chiamato un “gran negro”. Invece a chi parte in viaggio per l’Africa subsahariana si dirà, senza nessuna ironia, “vai nel paese dei bianchi”, in altre parole “vai all’estero”.
La migrazione – e questo vale per tutte le isole caraibiche – ha sempre avuto un ruolo importante nella storia di Haiti. È uno dei pilastri su cui si basa l’identità del paese, costituito come entità culturale a partire da diaspore diverse. Per questo l’approccio identitario ad Haiti non si basa solo sul fenotipo fisico. Quando Cristoforo Colombo sbarcò sull’isola nel dicembre del 1492, questa terra si chiamava già Ayti (che in lingua arawak significa “terra di montagna”) ed era abitata dai taino, una popolazione nata da un primo incrocio tra gli arawak e i siboney.
Trent’anni dopo il 90 per cento della popolazione locale era stata decimata. I futuri haitiani sarebbero stati i discendenti delle diaspore africane ed europee, rafforzate, un secolo dopo l’indipendenza, dall’arrivo dei siriano-libanesi (per citare solo le componenti e le ondate principali dei flussi migratori all’origine della popolazione dell’isola). A tutto questo si sono aggiunte altre migrazioni dall’esterno verso l’interno, più o meno regolari, che hanno continuato a irrigare l’identità culturale degli haitiani.
È importante distinguere il meticciato culturale dal meticciato biologico. Se quest’ultimo è evidente, il primo non è certo meno forte. A volte si tende a trascurare questo aspetto, che invece determina in larga parte il modo di essere al mondo di un individuo o di una comunità. Uno sguardo esteriore, riduttivo, spesso considera Haiti una semplice appendice dell’Africa trapiantata in terra americana. Ma se da un lato l’Africa è vasta e quindi plurale, dall’altro il territorio haitiano, come abbiamo visto, raggruppa uomini e donne di origini diverse. Eppure capita che l’assimilazione di questo sguardo esteriore spinga gli haitiani stessi, e gli africani con loro, a vedere in questo paese nient’altro che un ramo trapiantato dall’Africa.
Ricordo un incontro a cui ho partecipato nel novembre del 1995, nel nord della Francia. Eravamo una decina di autori riuniti per scrivere una lettera aperta contro la condanna a morte dello scrittore nigeriano Ken Saro-Wiwa. Qualcuno ha proposto di cominciare la lettera con: “Noi scrittori africani…”. Io ho chiesto di correggere l’inizio, sostenendo che, se volevamo identificarci a partire da una connotazione geografica, sarebbe stato meglio scrivere: “Noi scrittori africani e caraibici…”.
La mia osservazione ha scatenato l’ira di un senegalese. Capivo il suo punto di vista ma non lo condividevo. Per lui era come se rifiutassi di riconoscermi nella madre Africa: peggio, come se mi tirassi fuori dalla lotta comune. In realtà questo fratello non solo negava la mia americanità, ma con la sua reazione esprimeva – probabilmente senza rendersene conto – un’immagine negativa di sé. Questa immagine è il frutto dell’interiorizzazione del discorso dell’Altro, che riunisce tutti i negri sotto un’unica etichetta negativa. Lo scrittore martinicano Frantz Fanon vedeva in questo complesso – poiché proprio di un complesso si tratta – il risultato di un doppio processo: “Economico, innanzitutto, e, in un secondo tempo, di interiorizzazione o meglio epidermizzazione di questa inferiorità”.
Il contrario è altrettanto vero. Quante volte ho sentito dire da un bianco: “Tu non sei nero”. Ma se gli chiedo: “E che sono, allora?”, non sa rispondere. Qualcuno osa timidamente dirmi: “Sei come noi”, senza arrivare al punto di chiamarmi bianco. Il giudizio “tu non sei nero”, infatti, rinvia a un’immagine del nero intrisa di pregiudizi ereditati dalla propria educazione e dalla propria cultura. Senza volerlo, questo giudizio solleva un’altra questione essenziale: quella del meticciato, culturale o biologico, che viene rifiutato, spesso in modo istintivo, dai gruppi etnici puri. 
Prendiamo per esempio il meticciato bianco-nero nei paesi occidentali. Lì i meticci spesso sono percepiti dai bianchi in funzione della loro riuscita o del loro fallimento nella società. Meticci di successo sono guardati con simpatia e sollievo, come dei sottoprodotti della civiltà bianca, occidentale, dei figli di cui tutto sommato essere fieri. L’ex giocatore di tennis Yannick Noah, di padre camerunese e madre francese, faceva notare che la stampa lo considerava francese quando vinceva e franco-camerunese quando perdeva. Insomma, tutto quello che è positivo avvicina i meticci al campo dei bianchi, mentre tutto ciò che è negativo li allontana, spingendoli nel campo dei neri.
Da parte loro i neri, abituati a fare i conti con il razzismo e a interiorizzare il discorso dell’Altro, attribuiscono spesso ai meticci – ma non sempre a ragione – un complesso di superiorità. Oppure li considerano il risultato di un’evidente alienazione, umanoidi con la pelle indecisa e la maschera bianca (per parafrasare Pelle nera maschere bianche di Fanon), degli alienati, sradicati culturalmente, abituati da troppo tempo a frequentare la scuola dei bianchi. 
A causa di questo rifiuto i meticci finiscono per identificarsi con un campo o con l’altro, per lo più con quello delle vittime e dei perdenti della storia recente. Come hanno fatto Malcolm X e Bob Marley. La rabbia da neofiti e l’intransigenza nascono dalla delusione per non essere riusciti a incarnare quel punto di equilibrio, quel ponte di collegamento che sarebbero dovuti diventare per “natura”. Com’è prevedibile, la loro risposta sarà molto più complessa e si collocherà tra questi due estremi. Nelle loro ferite segrete, ma anche nelle loro gioie. Oltre il rifiuto e l’accettazione, oltre l’idealizzazione di quello che dovrebbero simboleggiare agli occhi dell’Altro. 
Barack Obama, in lizza per la candidatura del Partito democratico alle presidenziali statunitensi, ha vissuto molto presto sulla sua pelle questa condizione di “inclassificabilità”. Fino a quarant’anni fa negli Stati Uniti sarebbe stato incluso nella categoria coloured in base al sistema dell’apartheid. A lungo è stato “afroamericano” per la stampa statunitense e “nero” per la stampa europea.
Come si deve interpretare una simile definizione rispetto a un individuo biologicamente meticcio, che fino all’università ha frequentato solo il ramo bianco della sua famiglia? Cosa lo rende più nero che bianco se lo sguardo dell’Altro, in questo caso il bianco, che ha difficoltà a riconoscersi nella sua immagine? Anche i neri statunitensi diffidavano di Obama, prima di passare dalla sua parte in assenza di un candidato più nero e “puro”.
Gli scrittori migranti, originari del sud del mondo, spesso condividono la condizione dei meticci perché vivono a lungo – a volte da sempre – lontano dalla loro terra natale. Sono sbattuti da una riva all’altra dalle stesse onde meschine, e poco importano le cause dei loro spostamenti (l’esilio, le difficoltà economiche, l’ebbrezza del vagabondaggio). Tutto questo in nome dell’autenticità: culturale, linguistica, cioè dell’immaginario. Da un lato la riva meridionale serve a escludere, dall’altro la riva settentrionale serve a lavarsi la coscienza. Ed è come se ci fosse la necessità inderogabile di collocare l’immaginario e la lingua di questi scrittori sotto una bandiera che non sia letteraria. Come se un’opera, questa parte visibile dell’interiorità, non bastasse a se stessa e soprattutto non bastasse a definire il solo luogo di cui parla il suo autore: il proprio sé. 
Da John Donne in poi questo sé non può più essere considerato un’isola. È un sé fatto di piste sottomarine collegate in modo permanente con l’infanzia, la terra che nutre ogni opera; un sé fatto di una sensibilità e di una lingua che non hanno consistenza se non sono radicate nella realtà. È come se l’essenziale non fosse l’opera stessa. Come se per gli scrittori della migrazione ogni opera potesse avere valore solo in virtù del contesto extraletterario. Tanto che alcuni arrivano a confondere l’opera con il contorno extraletterario. 
Il problema è che questo sguardo si estende all’insieme della letteratura del sud del mondo vista da nord. Negli anni si è affermata una lettura compassionevole di queste opere: una critica contraddittoria, in base a cui il loro “valore” spesso è dato solo dalla compassione che suscitano in relazione a un contesto non letterario. Compassione per la realtà, ma anche per gli autori, che l’Altro, ormai incapace di lottare, abituato a vivere in un nord troppo privilegiato, si compiace a considerare “povero” e “impegnato”. Mentre gli scrittori, migranti o meno, hanno una sola preoccupazione: tornare alla letteratura. 
 
Traduzione di Jamila Mascat
 
Louis-Philippe Dalembert è uno scrittore haitiano di lingua francese e creola. Nato a Port-au-Prince nel 1962, è autore di poesie, romanzi e racconti. In Italia ha pubblicato La matita del buon Dio non ha la gomma (Edizioni Lavoro 1997). Vive a Parigi.

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Cannibali e felici di Maryse Condé

Internazionale 762, 19 settembre 2008
Oggi si parla molto di diversità culturale. Le famose descrizioni di Frantz Fanon nei Dannati della terra stanno passando di moda: “Il mondo colonizzato è un mondo diviso in due… La città del colonizzato, o almeno la città indigena, il quartiere negro, la medina, la riserva rappresentano un luogo malfamato, popolato di uomini malfamati. Qui si nasce dovunque e comunque. E si muore dovunque, di qualunque cosa… La città del colonizzato è una città piegata, una città in ginocchio, disfatta”. 
È l’universo che ha cambiato forma. Non ci sono quasi più coloni e colonizzatori. Ci sono solo sfruttatori e sfruttati, have e have not. Le musiche, le cucine, le mode si mescolano. Le lingue convivono nelle città, che sono le nuove torri di Babele.
Con l’arrivo degli immigrati provenienti da tutte le parti del mondo, i paesi occidentali hanno capito di dover rinunciare all’idea di una cultura unica e a parole come “purezza” e “autenticità”, che, a pensarci bene, hanno prodotto più danni che altro.
Eppure la diversità culturale e il dialogo tra le culture rimangono troppo spesso dei miseri auspici. Gli esuli della diaspora restano chiusi in se stessi, rifiutando di aprirsi agli altri, senza voler condividere nulla. 
E così a Parigi, discutendo con un gruppo di ragazzi della cosiddetta “seconda generazione”, mi sono resa conto che non avevano mai visitato la reggia di Versailles né i castelli della Loira. Offuscata da quella che mi sembrava un’imperdonabile mancanza di curiosità, li ho rimproverati severamente.
“Proprio lei, l’autrice di Segù, ci dice queste cose?”, mi hanno risposto amareggiati. Poi ho capito che quel ripiegamento su se stessi rispondeva a ragioni confuse e complesse. A dispetto dei discorsi ufficiali, quei giovani si sentivano emarginati e le loro culture di provenienza erano sottovalutate. Per rispondere all’ignoranza e forse al disprezzo mostrati dal loro paese d’adozione, avevano scelto una sorta d’ignoranza volontaria. Cercavano di preservare in se stessi, come potevano, l’eredità dei loro genitori, che vedevano minacciata da ogni parte. 
Quella conversazione mi aveva turbato.
Come fargli riconoscere che le culture non devono mai escludersi, ma arricchirsi reciprocamente nello scambio? Come fargli accettare l’idea che la bellezza deve essere condivisa perché appartiene a tutti senza distinzioni? È questo che ci permette di sopportare la durezza della realtà e le privazioni del quotidiano. Dopo aver riflettuto a lungo, mi sono ricordata di Oswald de Andrade e della sua teoria del cannibalismo culturale.
Chi era Oswald de Andrade?
Era un brasiliano vissuto nella prima metà del novecento (1890-1954). In Europa non è molto conosciuto, ma le sue idee sono ancora parte integrante della cultura del suo paese, dove è considerato il padre del movimento “modernista”, cioè della cultura nazionale, fino ad allora sbiadita da secoli di dipendenza coloniale.
Nel 1922 con la sua compagna, la pittrice Tarsila do Amaral, Andrade aveva organizzato la settimana dell’arte moderna di São Paulo, per dare voce alla vitalità di quell’arte nascente e riconoscere il contributo della cultura indigena.
Andrade apparteneva alla ricca borghesia della capitale. Rovinato dal crac di Wall street del 1929, si era iscritto al Partito comunista e aveva creato un giornale militante. Ma l’opera che rimane legata al suo nome è il Manifesto antropofago, pubblicato nel 1928: un testo infuocato e ironico, una sorta di elogio dell’insensatezza che ricorda il Manifesto del surrealismo di Breton. Ispirandosi ai tupì, una popolazione indigena del Brasile che credeva di poter assimilare le virtù dell’uomo bianco attraverso un rito cannibale, il movimento di Andrade recuperava la metafora del cannibalismo – l’antropofagia – come un modo per accettare la propria condizione molteplice. Oswald de Andrade è stato il primo ad affermare che tutte le culture sono il risultato di influenze diverse, e il primo a usare i concetti di “ibridazione” e “métissage”, che oggi vanno così di moda. 
Non dobbiamo avere più paura né vergogna di far diventare parte di noi i valori presi in prestito dall’occidente, a patto di non trasformarli in feticci. E a patto di considerarli con ironia e perfino di saperli mettere in ridicolo, come fa il verso più famoso del Manifesto antropofago, parodiando l’Amleto di Shakespeare: “Tupì or not tupì, that is the question”. 
Forte di questa nuova consapevolezza, sono tornata dai miei ragazzi per dirgli: non esitate a visitare Versailles e le sue meraviglie. Basta che al momento opportuno vi ricordiate una cosa: Luigi XIV aveva i denti rovinati e l’alito cattivo. 
Sapranno fare buon uso dei miei consigli? 
 
Traduzione di Jamila Mascat
 
Maryse Condé è nata nel 1937 a Pointe-à-Pitre, in Guadalupa, dipartimento francese d’oltremare. In Italia ha pubblicato, tra l’altro, Segù (Edizioni Lavoro 2003), La vita perfida (e/o 2001) e Sogni amari (Città Aperta 2006).

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Chi Legge cosa: Gennaio 2009

CHI LEGGE COSA: GENNAIO 2009


In questa pagina, ogni mese, un autore, o un intellettuale, condividono un consiglio di lettura. Abdourahman A. Waberi apre le danze.

 
Rifugiati. Voci della diaspora somala
Farah Nuruddin
Prezzo € 21,00
Dati 2003, 256 p., rilegato
Editore Meltemi  (collana Biblioteca)
 
 
Nuruddin Farah, scrittore somalo di solida reputazione nel mondo anglofono e in esilio da oltre un quarto di selcolo, si fa portavoce del suo popolo, in movimento dal 1991 – dalla presa di Mogadiscio e l’perazione Restore Hope. Nove anni di scrittura, un lavoro intenso e un minuzioso lavoro di documentazione, nei campi in africa e altrove, centinaia di interviste registrate in Italia e in Svizzera cosi come in Svezia, Inghilterra, Etiopia e Kenya. 
“Rifugiuati” à un libro sensibile, dalle tonalità universali, che uniscono la riflessione politica con una requisitoria contro i funzionari dell’ONU responsabili di rifugiati, il racconto autobiografico  con l’inchiesta sociologica. I Somali e i loro compagni di sfortuna, srilankesi, sierraleonesi, ruandesi, burundesi, algerini, afgani, kosovari, … – sono trattati come paria.  Se mai hanno la fortuna di superare le mille barriere amministrative e di polizia, li si ritrova qui e li come tanti Cristi che soffrono: raggomitolati in un tunnel in attesa di un ipotetico soccorso, sperduti nella sala d’attesa di una stazione di provincia, addormentati sulle valigie nella hall di un aeroporto, mentre gli occhi seguono ogni movimento, chiedono uno sguardo e un sorriso. La vita eternamente al termine dei rifugiati in una zona ditransito, in un centro di detenzione, una progione che non dice il suo nome. Una vita che avanza al passo bagnato dei giorni di pioggia. Una vita posata sulla noia, spesso, e talvolta alla morte.  
 
> Altre letture su “Rifugiati” di Nuriddin Farah
Le Monde Diplomatique
 
> Per saperne di più su Nuriddin Farah
Wikipedia
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Igiaba Scego, Siamo tutti gli assassini di Abdul

Siamo tutti ggli assassini di Abdul
Di Igiaba Scego.
I biscotti mi hanno detto erano i Ringo, proprio loro, quelli dove nella pubblicità un bambino bianco e un bambino nero uniscono le loro mani in un saluto metropolitano. Abba avrebbe preso un pacco di quei biscotti, dicono. Furto reale, furto presunto. Non si è capito fino ad ora. L’unica cosa certa è che Abba è morto e Fausto e Daniele Cristofoli sono accusati dell’omicidio. Un padre e un figlio che si sono uniti nell’odio per un altro essere umano. Qui non ci sono biscotti e percezioni che tengano. C’è solo la spranga di reale. Ora noi tutti reagiamo contro l’omicidio. Ci indigniamo, come giusto, organizziamo maratone letterarie antirazziste, cortei. Ma nel fondo del cuore a me rimane un senso di malessere e di colpa. In questi giorni ho visto la foto di Abdul, di questo bellissimo ragazzo, ovunque. Spesso accanto alla foto una scritta: Siamo tutti Abdul. Io però temo che siamo tutti gli assassini di Abdul. Temo che sia colpa nostra se oltre alla cacca di piccioni a Via Zanutti troviamo altro, troviamo il sangue di Abdul, segmenti infinitesimali della sua materia celebrale. È colpa nostra se Abba è morto. Perché viviamo in una Italia infelice e non facciamo nulla per cambiare questo stato di cose. Samir Kassir giornalista libanese, morto in un attentato nel 2005, prima della sua assurda fine aveva fatto in tempo a pubblicare un pamphet dal titolo L’infelicità araba. Kassir scrive: “Non è bello essere arabo di questi tempi. Senso di persecuzione per alcuni, odio di sé per altri, nel mondo arabo il mal di esistere è la cosa meglio ripartita. […] Da qualsiasi parte lo si esamini, il quadro è fosco”. Kassir parla del mondo arabo, ma io penso che nemmeno essere italiani è bello di questi tempi. Io nata a Roma da genitori somali, italiana seconda generazione, soffro il razzismo, come Abba, come tanti. Ma questa è solo la punta dell’iceberg. Si parla di immigrazione, si crea paura perché affrontare gli altri temi non conviene a nessuno. È la solita politica del capro espiatorio. Ne sanno qualcosa i 6 milioni di ebrei fatti morire da Hitler per nascondere le magagne del Reich. “Se stai male italiano” ti dice la politica, l’impresa, l’intellighenzia “è colpa dell’altro. Di quel brutto rumeno. Di quello sporco negro”. E tu italiano, depresso, ci credi, perché non sai più dove sbattere la testa, perché non arrivi a fine mese o perché hai studiato tanto, ma non sei figlio di papà. Sei arrabbiato perché in questa terra di poeti, santi, navigatori hai minori opportunità (che si riducono drasticamente se sei donna). L’evasione fiscale, la camorra, il traffico selvaggio dei rifiuti, la scuola smembrata (e lasciata sola), il baronato universitario, questi e tanti altri sono i problemi. Quelli veri. Il razzismo è solo la conseguenza dell’immobilità di tutti noi italiani (bianchi, neri, gialli, a pois, cattolici, mussulmani, ebrei, atei, di destra, di sinistra, progrillo, proguzzanti).
Siamo tutti gli assassini di Abdul e siamo molto malati.
Gurariremo?

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Lisa Ginzburg, Abba

Abba, di Lisa Ginzburg
Abdoul Gibre era un ragazzo di seconda generazione. Nato e cresciuto in Italia ma con radici più lontane. “Per la prima volta abbiamo scoperto di essere negri” dicono, composti e lucidi nel più forte dolore, i suoi familiari. Dopo che lui, “Abba”, è stato massacrato e ucciso su un asfalto qualsiasi, un’alba di fine estate. A un altro ragazzo di seconda generazione sentiamo dire: “All’estero posso sentirmi italiano, molto più che qui”. Le identità negate, quelle finalmente riconosciute, ma altrove. La discriminazione cieca, la furia di chi solo può avventarsi su chi appare diverso, colpibile perché “straniero”, inerme perché non “uguale”. L’Italia non è capace. Di capire che la storia ha camminato più veloce dei preconcetti, e il paese è comunque diventato multietnico. In modo scomposto, incivile, disseminato di mattanze di vario genere: ma un paese multietnico. Questo troppi italiani si ostinano, con stolida, bieca chiusura a non voler riconoscere. La stessa retrograda rimozione fa sì che non si ammette il razzismo, le dimensioni fuori misura del suo dilagare. La tragedia di Abdoul, i suoi occhi luminosi di fiducia nella vita (quel sorriso, come dimenticarlo?) sono un monito. A impegnarci davvero, ognuno come sa e può. La sua morte orrenda ci dia la misura del baratro di ignoranza in cui navighiamo, tra oblìo delle radici e semina di macerie future. Se è tardi per renderci conto, non lo è per cercare di nuovo. La dignità della convivenza civile, il respiro dell’accoglienza, l’umiltà del reciproco riconoscimento.

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Cristina Ali Farah, Mappa dell'amore

Mappa dell’amore, di Cristina Ali Farah.
Testi scritto in occasione della maratona di letture in memoria di Abdoul Guibré. Pubblicata sull’Unità del..
Aspetta, lasciami attraversare la soglia a occhi chiusi
la sedia del re è vuota, il guanto mostra l’investitura,
il potere è sconnesso
Veli e disveli, sguardo obliquo, ubiquo
Com’è facile, dopo tutto, ingannare alla vista
(nascondi il braccio imputato)
ammaestrare i confini del vuoto
Ho scavato la terra a mani nude per trovare il segreto e quel che resta
di tremila vergini in terracotta,
vene d’acqua, nidi e tombe sotto strati di sabbia e di pelle
Le mie dita disegnano frammenti e specchi,
cancellati dalla memoria
Risalgo i battiti del tempo,
mia madre, la madre di mia madre, matrioske perforate
Datemi una candela perché io possa guardare dentro
e ricomporre la mappa dell’amore nei corpi sconsacrati

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Jorge Canifa, Notte Assassina

NOTTE ASSASSINA, di Jorge Canifa Alves

Scesa è la Notte
improvvisa e fredda e assassina
e segue il negro italiano
da lontano… MOLTO LONTANO
tanto lontano quanto dannatamente vicino!!!
Scesa è la Notte
e senza ad essa badare
RAPpa il negro con gl’amici suoi:
“E se rubassi un biscotto?”
“Conta già che sei morto!
Perchè il nero ti tradisce
e la giustizia fallisce!”
Scesa è la Notte
improvvisa e fredda e assassina
e ferma i suoi passi al bar in chiusura
e semina spine xenofobe
nei due pregiudicati cuori!
Scesa è la Notte
e senza ad essa badare
contan la grana le “perbene” genti
“Abbiamo ben fatto cassa?”
“Conta solo questo me basta!
Perchè la grana ingrandisce
se il negro non ti aggredisce!”
Scesa è la Notte
e sparito è un biscotto
tum-tum-tum-tum-tum-tum
scappa giovane Abba, scappa
… levàti ha i veli la notte
ed ecco gli occhi assassini degli orchi inseguire…
Scesa è la Notte
e sparito è un biscotto
ciac-ciac-ciac-ciac-ciac-ciac
prendilo quel negro, prendilo
… levàti ha i veli la notte
ed ecco il negro di merda scappare…
scappa, scappa, scappa, scappa
prendilo, prendilo, prendilo, prendilo
scappa, prendilo, scappa, prendilo!!!!
prendilo, scappa, prendilo, scappa!!!!
Scappa il giovane Abba
che inciampa però nella
nera sua pelle africana
e allora, solo per questo è raggiunto
e si scatenanno sulla
nera sua pelle africana
sulla nera sua pelle africana
la Furia e l’Odio Recondito
degli orchi e pregiudicati e assassini suoi
Ed eccola la Notte ferma!
e osserva tutto quell’odio e il sangue!
e giudice: accusa di furto il giovane ucciso!
e giudice: proscioglie dall’odio le bestie assassine!
Ed eccola la Notte ferma!
e osserva tutto quell’odio e il sangue!
mentre oscurano i MEDIA
il dolore degli Abba, negri immigrati!
mentre cercano i MEDIA
il dolore delle orchi, bestie assassine!
Scesa è la Notte
improvvisa e fredda e assassina!
Scesa è la Notte
improvvisa e fredda e indifferente!
Scesa è la Notte
Scesa è già la Notte…
Scesa è ormai la Notte.
Pubblicato su l’Unità

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Abdourahman A. Waberi, Ode per Abdul Guibre

Abdourahman A. Waberi, Ode per Abdul Guibre
Mentre in Francia l’ormai 80enne leader del Front National, Jean-Marie Le Pen, col suo carico d’odio, appende i guantoni al chiodo lasciando ai suoi eredi un bilancio nullo, l’Italia di oggi scopre con spavento che parte dei suoi cittadini vorrebbero buttare a mare tutti quelli che non hanno il colore della pelle, la religione e il cognome giusti. Ecco allora che africani, magrebini, Rom e altri sfortunati extracomunitari sono messi alla gogna, e non soltanto negli stadi di calcio di cattiva reputazione. Rieccoci al razzismo e al fascismo! Neanche essere omosessuali a Verona porta bene, di questi tempi. Né esibire una targa automobilistica della Romania quando si vuole andare a Milano o altrove in quel Nord così freddoloso, così geloso delle sue ricchezze e così assorbito da se stesso. Ho la netta sensazione che il vecchio paese sornione e raffinato sia sull’orlo di una crisi di nervi. Anzi, peggio: è inebetito dopo l’inutile morte di Abdoul Guibre, un giovane italiano di 19 anni.
Dove sono finiti i suoi grandi viaggiatori curiosi ed empatici, tutti eredi di Marco Polo, tutti aperti all’altro? Penso a penne della tempra di un Claudio Magris, o di Gianni Celati, che aveva così ben descritto il Mali. Che cosa dicono oggi i grandi ingegni transalpini – almeno quelli che conosciamo in Francia, da Antonio Tabucchi a Giorgio Agamben, da Erri De Luca a Umberto Eco ?
Sarebbe illusorio voler vivere nell’isolamento, come predicano certi politici italiani, quando le sfide del mondo moderno ci invitano alla massima apertura – dei mercati, delle idee, ma anche delle persone. Certo, nessun paese sfugge all’illusione di dovere soltanto a se stesso il suo sviluppo, le sue conquiste, le sue arti e le sue specificità. E tuttavia, l’esperienza dimostra che le imprese umane prosperano appieno soltanto se gli orizzonti sono vasti e le menti aperte ai quattro venti del mondo.
Fuori d’Italia, siamo in tanti a non aver visto questo paese, un tempo tanto luminoso, accartocciarsi pericolosamente su se stesso. Di questo passo diventerà sempre più provinciale, fino a ridursi a una pallida imitazione di sé, o peggio, a un luna park per il resto del mondo… A meno che la popolazione e la società civile – in breve, la «moltitudine» cara a Toni Negri – non faccia sentire la sua voce. Esigendo l’instaurazione di un clima di rispetto e di tolleranza per tutti, misure più umane per coloro che vengono riaccompagnati alla frontiera, e l’applicazione della legge – tutta la legge – a chi minaccia la vita dei cittadini, quale che ne sia la razza, la religione o l’orientamento sessuale. Solo così vedremo finalmente i Le Pen locali, come Gianfranco Fini o Umberto Bossi, gettare anche loro l’infame spugna.
Abdourahman A. Waberi
scrittore francese e di Gibuti
[Traduzione di Marina Astrologo]