Internazionale 762, 19 settembre 2008
Oggi si parla molto di diversità culturale. Le famose descrizioni di Frantz Fanon nei Dannati della terra stanno passando di moda: “Il mondo colonizzato è un mondo diviso in due… La città del colonizzato, o almeno la città indigena, il quartiere negro, la medina, la riserva rappresentano un luogo malfamato, popolato di uomini malfamati. Qui si nasce dovunque e comunque. E si muore dovunque, di qualunque cosa… La città del colonizzato è una città piegata, una città in ginocchio, disfatta”.
È l’universo che ha cambiato forma. Non ci sono quasi più coloni e colonizzatori. Ci sono solo sfruttatori e sfruttati, have e have not. Le musiche, le cucine, le mode si mescolano. Le lingue convivono nelle città, che sono le nuove torri di Babele.
Con l’arrivo degli immigrati provenienti da tutte le parti del mondo, i paesi occidentali hanno capito di dover rinunciare all’idea di una cultura unica e a parole come “purezza” e “autenticità”, che, a pensarci bene, hanno prodotto più danni che altro.
Eppure la diversità culturale e il dialogo tra le culture rimangono troppo spesso dei miseri auspici. Gli esuli della diaspora restano chiusi in se stessi, rifiutando di aprirsi agli altri, senza voler condividere nulla.
E così a Parigi, discutendo con un gruppo di ragazzi della cosiddetta “seconda generazione”, mi sono resa conto che non avevano mai visitato la reggia di Versailles né i castelli della Loira. Offuscata da quella che mi sembrava un’imperdonabile mancanza di curiosità, li ho rimproverati severamente.
“Proprio lei, l’autrice di Segù, ci dice queste cose?”, mi hanno risposto amareggiati. Poi ho capito che quel ripiegamento su se stessi rispondeva a ragioni confuse e complesse. A dispetto dei discorsi ufficiali, quei giovani si sentivano emarginati e le loro culture di provenienza erano sottovalutate. Per rispondere all’ignoranza e forse al disprezzo mostrati dal loro paese d’adozione, avevano scelto una sorta d’ignoranza volontaria. Cercavano di preservare in se stessi, come potevano, l’eredità dei loro genitori, che vedevano minacciata da ogni parte.
Quella conversazione mi aveva turbato.
Come fargli riconoscere che le culture non devono mai escludersi, ma arricchirsi reciprocamente nello scambio? Come fargli accettare l’idea che la bellezza deve essere condivisa perché appartiene a tutti senza distinzioni? È questo che ci permette di sopportare la durezza della realtà e le privazioni del quotidiano. Dopo aver riflettuto a lungo, mi sono ricordata di Oswald de Andrade e della sua teoria del cannibalismo culturale.
Chi era Oswald de Andrade?
Era un brasiliano vissuto nella prima metà del novecento (1890-1954). In Europa non è molto conosciuto, ma le sue idee sono ancora parte integrante della cultura del suo paese, dove è considerato il padre del movimento “modernista”, cioè della cultura nazionale, fino ad allora sbiadita da secoli di dipendenza coloniale.
Nel 1922 con la sua compagna, la pittrice Tarsila do Amaral, Andrade aveva organizzato la settimana dell’arte moderna di São Paulo, per dare voce alla vitalità di quell’arte nascente e riconoscere il contributo della cultura indigena.
Andrade apparteneva alla ricca borghesia della capitale. Rovinato dal crac di Wall street del 1929, si era iscritto al Partito comunista e aveva creato un giornale militante. Ma l’opera che rimane legata al suo nome è il Manifesto antropofago, pubblicato nel 1928: un testo infuocato e ironico, una sorta di elogio dell’insensatezza che ricorda il Manifesto del surrealismo di Breton. Ispirandosi ai tupì, una popolazione indigena del Brasile che credeva di poter assimilare le virtù dell’uomo bianco attraverso un rito cannibale, il movimento di Andrade recuperava la metafora del cannibalismo – l’antropofagia – come un modo per accettare la propria condizione molteplice. Oswald de Andrade è stato il primo ad affermare che tutte le culture sono il risultato di influenze diverse, e il primo a usare i concetti di “ibridazione” e “métissage”, che oggi vanno così di moda.
Non dobbiamo avere più paura né vergogna di far diventare parte di noi i valori presi in prestito dall’occidente, a patto di non trasformarli in feticci. E a patto di considerarli con ironia e perfino di saperli mettere in ridicolo, come fa il verso più famoso del Manifesto antropofago, parodiando l’Amleto di Shakespeare: “Tupì or not tupì, that is the question”.
Forte di questa nuova consapevolezza, sono tornata dai miei ragazzi per dirgli: non esitate a visitare Versailles e le sue meraviglie. Basta che al momento opportuno vi ricordiate una cosa: Luigi XIV aveva i denti rovinati e l’alito cattivo.
Sapranno fare buon uso dei miei consigli?
Traduzione di Jamila Mascat
Maryse Condé è nata nel 1937 a Pointe-à-Pitre, in Guadalupa, dipartimento francese d’oltremare. In Italia ha pubblicato, tra l’altro, Segù (Edizioni Lavoro 2003), La vita perfida (e/o 2001) e Sogni amari (Città Aperta 2006).